L'esposizione del crocefisso nelle aule dei tribunali non lede la libertà di religione.
La Corte di Cassazione afferma che il simbolo della cristianità può restare al suo posto. Chi invece lo deve lasciare è il giudice di Camerino che proprio alla suprema Corte si era rivolto per annullare il provvedimento con cui il Csm lo rimuoveva dalla magistratura. La decisione era stata presa dall'organo di autogoverno dei giudici perché il magistrato si era sottratto «ingiustificatamente e abitualmente» alle udienze, creando così, semmai ce ne fosse bisogno, un disservizio alla giustizia. Assenze non a caso definite ingiustificate. Il giudice ma-rchigiano, infatti, non solo si era rifiutato di lavorare in un aula con il crocifisso ma aveva continuato a "restare a casa" anche quando il presidente del tribunale
gli aveva messo a disposizione un'aula in cui non c'era alcun simbolo religioso, garantendo così il suo diritto soggettivo alla libertà di culto. Scelta che il diretto interessato aveva prontamente bollato come una ghettizzazione, a cui si poteva rimediare, suggeriva, solo togliendo il crocifisso da tutte le aule delle giurisdizioni nazionali, in virtù del principio di laicità dello Stato o, in subordine, associando al simbolo della cristianità la menorah ebraica. Richieste che, spiega la Cassazione, non potevano essere accolte. La prima perché il principio di laicità dello stato esula dai diritti soggettivi e sconfina nel campo degli interessi diffusi la cui tutela non spetta al singolo individuo. Mentre per la seconda – affermano le Sezioni unite – sarebbero necessarie scelte discrezionali del legislatore che, al momento, non ci sono state. Per gli ermellini dunque il crocifisso è l'unico simbolo religioso che può essere esposto nei pubblici uffici e la sua presenza «non può costituire necessariamente una minaccia ai propri diritti di libertà religiosa per tutti quelli che frequentano un'aula di giustizia per i più svariati motivi e non solo necessariamente per essere tali utenti dei cristiani». La decisione della sezione disciplinare del Csm non lede dunque – specificano i giudici di piazza Cavour – il principio di laicità dello stato. Valore più volte riconosciuto dalla Corte costituzionale come «un principio supremo del nostro ordinamento costituzionale» che, pur non proclamato espressamente dalla Carta, si evince dagli articoli 2, 3, 7, 8, 19 e 20. La sentenza della Cassazione ha "incassato" giudizi positivi trasversali, con rare eccezioni. Si compiace per l'esistenza di un "giudice a Roma" che «rispetta la vera laicità, distinguendola dal laicismo e dall'ideologia militante anti-cristiana» Stefano Graziano del Pd. Plaudono al riconoscimento del valore storico e culturale del simbolo Laura Bianconi del Pdl e il sindaco di Roma Gianni Alemanno. La scelta della Cassazione va bene anche alla Lega che si allarma però per la "possibilità" offerta al legislatore di aprire ad altri simboli di culto con il rischio di innescare conflitti sociali. Non si uniscono al coro i radicali, secondo cui la Suprema corte ha solo avallato il contenuto della circolare fascista che introdusse il crocefisso negli uffici pubblici. Ora si attende il verdetto della Grande chambre della Corte europea dei diritti dell'uomo che venerdì si pronuncerà sullo stesso argomento, dopo il ricorso dell'Italia per impugnare la sentenza in cui i giudici del "primo grado" avevano deciso di bandire il crocifisso dalle aule scolastiche perché in contrasto con la libertà dei genitori di educare i figli secondo le loro convinzioni e la libertà di religione degli alunni
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